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Durante il periodo della colonizzazione greca prima, e della dominazione romana poi, sicuramente la rocca sulla quale si erge il castello normanno fu frequentata per la sua posizione strategica, che permetteva il controllo del mare e del passaggio delle navi dirette verso lo stretto di Messina.
Sebbene non si siano conservati resti di strutture di tale periodo, a causa probabilmente della distruzione delle fortezze costiere operata dagli Arabi, gli scrittori antichi ci hanno lasciato il ricordo di famose battaglie navali combattute in queste acque (Diodoro Siculo ci ricorda quella tra lmilcone cartaginese e Leptine siracusano).
Anche i rinvenimentì archeologici, soprattutto quelli sottomarini, esposti nelle vetrine del Museo Civico, attestano l'antica frequentazione di questi luoghi.
L'arrivo degli Arabi fu segnato da un periodo sanguinoso di guerre e distruzioni, testimoniato dagli stessi scrittori arabi.
La fortezza sulla rupe fu distrutta dall'emiro lbrahim nel 902. Non si sa con esattezza se il Califfo Al Moez, nel 909, fece riedificare sulla rupe una fortificazione (kalat), che doveva far parte di un più vasto sistema difensivo atto a proteggere l'abitato di Aci (Al-Yag). Tra il 1071 e il 1081, nell'ambito della conquista dell'isola da parte dei normanni Roberto il Guiscardo e Ruggero d'Altavilla, si deve porre la costruzione del castello di cui ancora oggi si possono visitare le strutture superstiti ed ammirare gli splendidi archi a sesto acuto. Il castello fu in seguito concesso ai vescovi di Catania che proprio qui, nel 1126, ricevettero le sacre reliquie di Sant'Agata, riportate in patria dalla città di Costantinopoli dai cavalieri Goselino e Gisliberto. Sono ancora visibili, all'interno di un ambiente che probabilmente era una piccola cappella, i resti di un affresco che ricorda appunto la consegna delle sacre reliquie della Santa al vescovo Maurizio.
L'affresco, purtroppo, versa in uno stato di avanzato degrado, soprattutto a causa di "romantici" visitatori che hanno graffito su di esso il loro nome.
Nel l169 una disastrosa eruzione investì il paese di Aci e raggiunse perfino la rupe che fino ad allora emergeva dal mare, isolata dalla terraferma; la colata colmò il braccio di mare antistante la rupe, rendendo inutile il ponte levatoio che serviva a congiungere il castello al paese.
Il possesso del castello rimase ai vescovi dì Catania fino al 1239.
Quando però il vescovo Gualtiero di Palearia fu rimosso dal suo incarico da Federico II di Svevia, il castello entrò a far parte del Demanio Regio. Poco più tardi, durante il breve periodo angioino (che si concluse con la rivolta dei Vespri Siciliani del 1282), il castello tornò nuovamente in possesso dei vescovi di Catania.

Dalla fine del XIII secolo fino all'età dei Viceré, il castello fu testimone della lunga lotta che contrappose gli aragonesi di Sicilia agli angioini di Napoli. Federico III d'Aragona, re dì Sicilia, tolse il fondo di Aci ed il relativo castello ai vescovi di Catania e lo concesse all'ammiraglio Ruggero di Lauria come premio per le sue imprese militari.
Quando però quest'ultimo passò dalla parte degli angioini, il re fece espugnare il castello (1297) entro il quale si erano asserragliati i ribelli. Per riuscire nell'impresa il re fece costruire una torre mobile, dì legno, chiamata "cicogna" (essa era alta quanto la rupe lavica ed aveva un ponte alla sommità per rendere agevole l’accesso al castello). Nel 1320, su concessione ancora di Federico III, il possedimento di Aci andò a Blasco d'Alagona ed in seguito al figlio Artale. Nel 1354, durante un assalto del maresciallo Acciaioli, inviato in Sicilia per ordine di Ludovico d'Angiò, il castello fu espugnato e devastato il territorio di Aci. Artale in breve tempo organizzò una flotta, usci dal porto di Catania e vinse gli angioini in una dura battaglia navale condotta nel tratto di mare tra Ognina ed il castello. In seguito a questa battaglia, passata alla storia come "lo scacco di Ognina", il castello fu liberato.
Nel 1396 il castello, allora in possesso di Artale II d'Alagona, fu nuovamente espugnato da Martino il Giovane (nipote di Pietro lV, re d'Aragona), il quale era sbarcato in Sicilia dopo aver contratto matrimonio nel 1391 con la regina Maria, unica figlia di Federico lV ed ultima erede al trono aragonese di Sicilia.
Martino, approfittando dell'assenza di Artale II, riuscì nell'impresa dopo aver guastato il sistema di approvvigionamento idrico del castello, mentre l'Alagona, che aveva fatto di Aci e di Catania l'epicentro della sua accanita resistenza contro la presenza di Martino in Sicilia, raggiunto frettolosamente il suo possedimento non poté far altro che constatare la propria sconfitta e la perdita del castello, ormai dato alle fiamme. Spesso d'estate il Comune di Acicastello ripropone la rappresentazione di tale avvenimento storico, che per la sua suggestività richiama grande afflusso di pubblico.
Martino fece del castello la sua stabile dimora insieme a Bianca di Navarra divenuta sua sposa nel 1402 dopo la morte della prima moglie, la regina Maria. In questo periodo il castello conobbe un breve periodo di splendore in cui furono organizzate feste e lussuosi ricevimenti. Alla morte di re Martino, Bianca, nominata vicaria di Sicilia da Martino II succeduto a Martino il giovane, lasciò il castello a Ferdinando il Giusto di Castiglia, nuovo re di Sicilia (1412).

Nel 1416 il primo viceré di Sicilia, Giovanni di Castiglia, ordinò alcune opere di ristrutturazione del castello, per le quali stanziò la cifra di 20 onze d'oro.
Successivamente, nel 1421. il viceré Ferdinando Velasquez divenne il nuovo signore del castello e del feudo di Aci, per il quale pagò al re Alfonso il Magnanimo la somma di 10.000 fiorini. Alla morte del Velasquez, il castello tornò al demanio regio di re Alfonso, che lo rivendette al suo segretario Giambattista Platamone. Il successore di re Alfonso, Giovanni Il d'Aragona, rivendicò il possesso del castello a Sancio, discendente del Platamone. Questi si rifiutò di restituire il castello, che di conseguenza fu assediato ed espugnato in breve tempo; Sancio e suo figlio furono catturati e segregati nel Castello Ursino di Catania, dove morirono. Durante il XVI secolo il castello passò nelle mani di diversi privati, finché fu adibito a sede di una guarnigione che aveva il compito di segnalare i pericoli provenienti dal mare alle popolazioni interne ed alle altre fortificazioni vicine, poste lungo la costa. Allo stesso tempo il castello assolveva la funzione di prigione: si hanno testimonianze delle precarie condizioni in cui versavano i detenuti, che spesso venivano lasciati morire d'inedia nelle segrete. Anche un tesoriere comunale di Aci, Miuccio di Miuccio, incarcerato nel 1595 per debiti contratti con il Municipio, seguì la stessa sorte.
Interessante é anche la notizia che nel 1571 ventiquattro prigionieri preferirono arruolarsi nella spedizione navale che condusse alla battaglia di Lepanto, piuttosto che continuare a stare rinchiusi nelle tetre prigioni del castello. Una tappa fondamentale nella storia di Aci e del suo castello é l'anno 1528, quando l'imperatore Carlo V la rese libera da ogni vassallaggio erigendola a Comune, dietro il pagamento di ben 72.000 fiorini. Nel 1571, inoltre, si diede incarico a don Vincenzo Gravina di definire lo stemma della città, rimasto così fino ad oggi; lo stendardo veniva custodito all'interno del castello e portato fuori per la festa patronale.
Nel seicento il castello conobbe un rinnovato splendore, dovuto anche alla radicale opera di ristrutturazione voluta nel 1634 dal re Filippo III, che per l'occasione fece apporre una lapide marmorea all'ingresso con la dicitura:
"PHILIPPUS III DEI GRATIS
REX HISPANIARUM
ET INDIARUM
ET UTRIUSQUE SICILIAE
ANNO DIVI 1634".
Esso venne anche dotato di artiglieria, della quale é probabile testimonianza il cannone murato sulla terrazza superiore. Nel 1647 il castello venne venduto da re Filippo IV di Spagna a Giovanni Andrea Massa, che lo pagò 7.500 scudi.
Il disastroso terremoto che sconvolse la Sicilia orientale nel 1693 recò al castello ingenti danni, che furono tuttavia riparati negli anni successivi dai discendenti del Massa.

Poche le testimonianze relative al castello nel XVIII secolo, se si esclude la leggenda di un povero cacciatore che venendo un giorno a cacciare nelle vicinanze del castello, uccise per errore una gazza di proprietà del governatore del castello, uomo crudelissimo. Questi fece arrestare il cacciatore e lo fece segregare nelle prigioni del castello, dove rimase ben 13 anni. Un giorno, saputo dell'arrivo del Duca Massa, proprietario del castello, il cacciatore compose un canto in suo onore; quando lo udì, il duca volle conoscerlo e, appresane la triste storia, diede subito ordine che venisse scarcerato.
Nel XIX secolo il castello entrò a far parte del Demanio Comunale, ma nel 1818 un terremoto provocò nuovamente danni così gravi che esso non poté più essere utilizzato come prigione. Carenti le notizie storiche sulla seconda metà dell'ottocento; il castello tuttavia ispirò in questo periodo a Giovanni Verga la novella "Le stoffe del Castello di Trezza" che, tra amori, tradimenti e fantasmi, narra le affascinanti vicende di don Garzia e di donna Violante.

Agli inizi del XX secolo il castello di Acicastello divenne deposito di masserizie; durante la seconda guerra mondiale una grotta della rupe venne usata come rifugio antiaereo.
Negli anni 1967-69 la Soprintendenza ai Monumenti della Sicilia Orientale restaurò il castello; si trattò tuttavia di un restauro poco filologico, del quale rimane in ricordo una lapide all'ingresso.
Dal 1985, anno di inaugurazione del piccolo museo posto all'interno del castello, grazie alla promozione di diverse iniziative culturali (mostre, convegni, visite guidate, concerti, studio del materiale paleontologico ed archeologico), esso sta via via assumendo sempre più la fisionomia ed il ruolo che più si addicono ad un monumento storico ed architettonico di tale importanza: non una muta testimonianza storica, ma il centro propulsore di un vivo e continuo dialogare tra i contemporanei ed il passato.
 
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