La chiesa del Gran Priorato di Sant'Andrea è uno dei più antichi esempi di architettura del periodo normanno, a giudizio quasi unanime degli storici dell'arte (W. Leopold, E. Maganuco, S. Bottari, H.M. Schwartz, R. Delogu, P. Santucci, etc.); e contiene nei suoi affreschi alcuni tra i pochissimi, e forse più interessanti, esempi superstiti della pittura siciliana del XII e XIII secolo.
Sita alla periferia nord-ovest della città, essa appare ancora nella sua scabra e compatta struttura medievale dominata da una piccola torre campanaria addossata all'abside centrale, incisa nel prospetto da un grande portale archiacuto a ghiere multiple, ornate originariamente da due colonnine (di cui resta solo un capitello a foglioline) e da una finestra ad occhio; i muri laterali sono interrotti da due portali archiacuti più piccoli e da una fila di finestrelle a feritoia; il braccio meridionale del transetto è aperto da un portaletto archiacuto con tozze colonnine incise negli spigoli; mentre il portaletto dell'altro braccio, che è stato restaurato di recente, dai pochi frammenti originali superstiti appare senz'altro più elegante.
L 'interno è caratterizzato da una pianta a croce commissa che sale di quattro gradini nel santuario, da una lunga navata coperta da tetto a capriate, da un transetto su cui si aprono due absidiole laterali incassate nel muro e una grande abside centrale, da quattro arconi acuti che immettono nel santuario e nell'abside centrale e scandiscono il tetto del transetto.
Fondata molto probabilmente nei primi decenni del 1100 da Simone Aleramico, conte di Butera e nipote del conte Ruggero, nel 1148 fu dallo stesso e dalla moglie Thomasia donata all'ordine militare del Santo Sepolcro con l'annesso cenobio e con una cospicua rendita, che servì per partecipare alle spese per la difesa di Gerusalemme fino a quando essa non fu conquistata dai turchi (1244); dopo di che finì per diventare uno dei più ricchi benefici ecclesiastici della Sicilia.
Mentre il culto religioso veniva esercitato inizialmente dai Canonici regolari di S. Agostino, poi da quattro Cappellani e infine dai preti secolari di S. Filippo Neri, il Priorato, che diventò Gran Priorato quando passarono alle sue dipendenze i Priorati di S. Elia di Adrano e di S. Andrea di Lentini, era un incarico feudale che veniva assegnato dai re di Sicilia a membri delle più potenti famiglie italiane, dagli Aragona agli Alliata, ai Ventimiglia, agli Uzeda, ai Filangeri, ai Pallavicini, ai Trivulzio, ai quali competeva soltanto l'esazione delle imposte e dei proventi, l'esercizio della giustizia minore e la nomina dei Priori dei conventi suffraganei.
Secondo una "ricognizione" dei beni immobili (feudi, territori, chiuse e tenute), fatta eseguire nel 1702 dal priore Antonio Paceco, i terreni di proprietà del Priorato ammontavano a 530 salme, circa 1800 ettari di oggi (quelli dei Benedettini di Catania erano circa 6.000 ha), che qualche anno dopo (1707) fruttavano al priore Giovanni Filangeri dei principi di Cutò un utile netto di 247 onze su un'entrata di 296, mentre venticinque anni dopo lo stesso priore denunciava al "regio visitatore" G. A. De Ciocchis quasi lo stesso utile (249 onze) su un'entrata di 593 onze.
Naturalmente parte di tali proventi venivano spesi fin dall'inizio per la manutenzione e l'arredamento della chiesa e dell'eremo; come di quest'ultimo, già nel Settecento abbandonato e semidistrutto, oggi non resta che una piccola traccia, nulla rimane più del ricco arredo di cui parlano gli antichi inventari: della "croce di legno impiastrata di lama d'argento con dodici figurette di rame dorato con una figuretta del Crocifisso ed un'altra di S. Andrea indorati", della "pisside d'argento e guarnizioni d'oro e d'argento", dei tre calici d'argento, della "sfera d'argento", dell'incensiera e navetta d'argento, delle pianete, dei piviali, dei vessilli, dei palii d'altare ornati d'oro.
Non si sa dove siano finite le tele di S. Andrea, che campeggiava prima sull'altare maggiore, e della Passione di Cristo donate alla chiesa ai primi del Seicento dal Cardinale Pallavicini insieme al Martirio di S. Agata di J acopo Ligozzi, ora custodito nella cattedrale, e ad un S. Pietro di ignoto autore; i documenti dell'archivio del Priorato furono distrutti in seguito alla chiusura e al trasferimento ad Enna di tutte le carte dell'Ufficio del Registro di Piazza Armerina, dove essi si trovavano fino a trent'anni fa.
Sono miracolosamente sopravvissuti e, riscoperti e restaurati negli anni 1958- 62 dal Professore Giovanni Nicolosi, ornano dal 1981 di nuovo le pareti della chiesa, i resti degli affreschi medievali dovuti certamente agli Agostiniani.
Si tratta in tutto di circa 90 metri quadrati di superficie dipinta, divisa in venti frammenti, tra cui alcuni di notevoli dimensioni, che testimoniano della ricchezza decorativa che tre secoli di attività artistica avevano accumulato sul .monumento, e costituiscono la maggiore concentrazione di pittura medievale siciliana conservata nel luogo d'origine, a parte i mosaici della Cappella Palatina di Palermo, del Duomo di Monreale e di quello di Cefalù.
Un primo gruppo di quattro frammenti con figure di Santi ed Angeli, secondo Raffaello Delogu, per "la raffinatezza e il gusto degli ornati, il frontalismo senza spessore delle figure, l'incantata e preziosa ritualità dei gesti", denunzia chiaramente influenze arabe e bizantine, e può, quindi, essere datato al XII secolo; mentre ancora più notevole per gli studiosi è un secondo gruppo che comprende il Martirio di S. Andrea, S. Martino, la Dormitio Virginis, la Deposizione dalla croce, l'Annunciazione, la Natività e Strage degli Innocenti e alcune figure di Santi.
Il Pittore anonimo
L' "Anonimo meridionale del XII - XIII secolo" cui sono stati attribuiti questi affreschi è un pittore di impronta romanica, "collegato in qualche modo alla pittura cosiddetta benedettina dell'Italia meridionale" (Delogu), che "se fu un siciliano dovette rifarsi a una cultura pugliese, se fu un pugliese si trasferì in Sicilia, portando con sè i ricordi della cultura figurativa della sua terra" (P. Santucci).
Ma, a parte il santo Vescovo e la Crocifissione tra Santa Caterina ed altra Santa, dovuti ad altri maestri del XIII secolo, notevole è pure il contributo dato dalla chiesa piazzese alla pittura siciliana del Quattrocento, con dipinti che vanno inquadrati nella cultura figurativa del Quattrocento siciliano che culmina nella Croce dipinta della Cattedrale di Piazza Armerina e nell'opera di Antonello da Messina: si tratta della Madonna dalla faccia grande, del Sant'Agostino e soprattutto dei grandi quadri della Resurrezione, della Pietà e di San'Antonio abate, datato 1484 e rimasto sempre in sede.
Trentacinque anni fa Pietro Loiacono, auspicando il restauro degli affreschi, scriveva che con essi la chiesa sarebbe potuta diventare "un'esposizione di pittura siciliana del Medioevo", tale da "costituire per Piazza Armerina e per la Sicilia tutta, così impoverita di pitture in questi ultimi decenni, un centro di attrazione non meno interessante dei mosaici del Casale". Gli affreschi sono stati restaurati, l'iniziativa di cittadini amanti dell'arte li ha fatti rientrare in sede.